Per chiunque mi conosca mediamente bene, non è proprio un segreto che mi piaccia leggere, né che poche cose mi affascinino quanto la cultura orientale e in particolare quella giapponese. Quando alla fine del quarto anno di liceo, tra i titoli delle letture estive consigliate è stato nominato un libro scritto da un autore giapponese, non vedevo l’ora di dargli una possibilità nella speranza di riuscire a fondere le due cose.
L’autore in questione si chiama Haruki Murakami, è nato a Kyoto nel 1949 e può vantare la traduzione delle sue opere in circa cinquanta lingue. La sua formazione di scrittore è stata profondamente influenzata dall’esperienza che lo ha visto aprire insieme alla moglie, nel 1974, un jazz bar nel quale preparava cocktail, leggeva e ascoltava le persone. Tra i premi vinti, figurano il World Fantasy Award, il Premio Franz Kafka e il Jerusalem Prize. Norwegian Wood è invece il titolo del primo libro che mi ha permesso di entrare a far parte del suo mondo, un mondo decisamente strano e particolare che non sono riuscita a ritrovare, fino ad ora, in nessun altro autore. È un mondo onirico, sospeso a metà tra realtà ed irrazionalità, in cui i personaggi si ritrovano spesso ad affrontare situazioni tutt’altro che ordinarie ma alle quali si adattano con facilità, quasi per inerzia, a volte semplicemente decidendo di arrendersi alla confusione.
Le stranezze non sono introdotte in alcun modo, semplicemente sono lì, fanno naturalmente parte del racconto. Oh, e non aspettatevi finali soddisfacenti in cui tutte le vostre domande potranno avere risposta. Non ne troverete.
Tornando al libro, chiaramente il titolo si riferisce a una nota canzone dei Beatles, la quale è naturalmente molto presente all’interno del racconto. Devo dire che la storia è probabilmente l’unica relativamente normale tra quelle che ho letto, ma non per questo meno apprezzabile. Leggerla è un modo piuttosto immediato per comprendere la tecnica di Murakami: esplicita, diretta, che non si fa problemi ad affrontare tematiche relativamente delicate o problematiche. Trovo che questo modo di scrivere rifletta piuttosto bene quello che è generalmente lo stile comunicativo giapponese, stile che personalmente apprezzo davvero molto e che mi ha spinta, da tre anni a questa parte, al continuo acquisto dei suoi libri. A tal proposito, altre sue opere che mi sento caldamente di raccomandarvi sono 1Q84, diviso in tre libri, è un racconto principalmente fantastico che ruota attorno a un mondo con due lune; Kafka sulla spiaggia, incentrato sul mito di Edipo e sulla strana storia di un secondo protagonista alquanto particolare e Dance dance dance, tra i cui personaggi figurano una ragazzina di tredici anni, una receptionist piuttosto irritabile, un famoso attore, un poeta con un braccio solo e sei scheletri intenti a guardare la televisione seduti in un salotto di Honolulu. Un’altra caratteristica dei libri di Murakami è la grande passione che l’autore nutre per la musica, percepibile attraverso costanti citazioni di gruppi e canzoni che non mancano mai di fare da perfetto sottofondo alle sue storie. Tra i gruppi citati figurano gli Eagles, i Beach Boys, gli Abba, i Beatles, i Fleetwood Mac ed i Bee Gees. Insomma, a mio parere non gli manca proprio nulla e io certamente non voglio che manchi una sua citazione a conclusione di questo articolo. Quindi, eccovela, tratta direttamente dal suo discorso di accettazione del Jerusalem Prize.
Tra un muro alto e solido ed un uovo che si rompe contro di esso, starò sempre dalla parte dell’uovo.
Sì, non importa quanto il muro abbia ragione e quanto l’uovo abbia torto, io starò dalla parte dell’uovo.
Qualcun altro dovrà decidere ciò che è giusto e ciò che è sbagliato; sarà forse il tempo a farlo, o la storia.
Ma se ci fosse un romanziere che, per qualsivoglia ragione, scrivesse stando dalla parte del muro, che valore avrebbero le sue opere?
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