L’errore più grande che si possa fare nella realizzazione di un film è restare schiavi del soggetto. Astruc paragonava la cinepresa del regista alla penna dello scrittore: entrambi sono infatti strumenti che possono restituire la visione del mondo dell’autore che li maneggia, ma bisogna tenere a mente che – pur avendo uguale dignità e valenza – non sono la stessa cosa e soprattutto non adoperano lo stesso linguaggio. La parola rientra nel territorio della letteratura e lì è destinata a rimanere; il cinema deve servirsi dell’immagine e sfruttare la sua grammatica autonoma. Tutto questo lo aveva capito bene Truffaut, che sottoponeva l’inquadratura allo stesso studio etico della parola: la pensava, soppesava, motivava. Truffaut era e resta dunque un grande pensatore del visibile, un compositore di immagini di incredibile loquacità, come quelle che ci vengono mostrate in Fahrenheit 451.
Tratto dall’omonimo romanzo di Ray Bradbury, il film è non una semplice trasposizione, ma una vera e propria traduzione e come ogni traduzione non può non far trasparire il tocco imprescindibile di chi ne è autore. Allora Truffaut declina a modo suo il racconto dello scrittore e lo reinventa, condendolo di riferimenti e richiami e soprattutto sfruttando al meglio le infinite possibilità della comunicazione per immagini. D’altra parte, in un mondo in cui la parola scritta è bandita, in cui quel linguaggio che da sempre, mitico, ci permette di tramandare conoscenze ed emozioni, a quale altro idioma se non quello dell’immagine dovremmo affidarci?
Geniale è allora l’intuizione di Truffaut di rappresentare, allo stesso tempo, la ribellione del protagonista alla dittatura dell’immagine mediatica e la sua tentazione alla lettura, ma allo stesso tempo l’ancora ancorata schiavitù a una tirannica società che lo priva del gusto di nutrirsi di parole. Esattamente come la moglie, che incessantemente guarda immagini illudendosi che queste siano parte della propria vita, così Montag “legge le figure” di un fumetto e sfugge alla possibilità di immergersi realmente in una storia, di essere davvero coinvolto in un racconto e di connettersi con i pensieri, le emozioni e le interiorità dei personaggi.
D’altra parte qui, a essere privati della propria anima non sono solo i personaggi disegnati o ripresi, ma anche le persone, parimente regressi allo stadio di burattini nelle mani di un potere che distrugge quelle vite passate che immortali popolano la carta stampata, rendendo così insignificanti quelle presenti. Le uniche storie legittimate sono quelle trasmesse dalla tv, illusorie e ipnotiche, che convincono lo spettatore di esserne parte esercitando su di loro un crudele controllo. Alienata, la persona fa aderire ogni suo gesto a quelli visti sul piccolo schermo, spesso rendendo meccaniche, robotiche, azioni che dovrebbero essere invece spontanee e umane.
A questo proposito, significativo è il dettaglio inserito da Truffaut del piede teso di Linda che applica sul marito le tecniche di autodifesa apprese da un programma televisivo. Ne fa uso in un contesto che non richiede alcun tipo di prevaricazione, ma che anzi dovrebbe prevedere un abbandono fisico ed emotivo completo da parte della coppia. Questo controllo, dunque, è quello del visibile sul reale, dell’immagine sull’istinto: Linda, appena rimessa in sesto e riempita di un sangue totalmente nuovo, è tornata a essere uno stereotipo di felicità, condita di buon appetito e devozione affettiva. È una rappresentazione, è il volto sorridente e soddisfatto di uno spot pubblicitario che guida ogni accenno di abbandono riducendolo a una rigida questione meccanica. Tutto è sotto controllo.
Ovviamente il controllo più rilevante esercitato in questo futuro distopico è quello sulla cultura, rea di dare modo alla gente di pensare e di esplorare ciò che si nasconde dietro l’apparenza plastica: le emozioni e le idee che ci rendono individui reali. Perché chi legge Aristotele si sente superiore, come d’altra parte i filosofi stessi, e chi sospira per le storie dei romanzi guarda con malinconia alla propria vita. Leggere, dunque, sostiene il Capitano, ci rende diversi (ci rende unici, sostengo invece io). «Dobbiamo essere tutti uguali. L’unico modo per essere felici è che tutti siano resi uguali. Quindi, dobbiamo bruciare i libri, Montag. Tutti i libri», dice, e nello scandire queste ultime tre parole solleva a favor di camera una copia del Mein Kampf.
Il rimando ai Bücherverbrennungen nazisti è immediato, per non dire banale. Lo è meno l’idea di lasciar bruciare in questi roghi anche Hitler, che difatti si era macchiato della stessa colpa. Qui non c’è un’ideologia dominante da proteggere: la lotta è a ogni forma di appartenenza intellettuale, di pensiero e dunque di individualismo. Insieme alle pagine bruciano idee, fatiche e autori; brucia tutto, indiscriminatamente, perché la distruzione della cultura non può che assumere dimensioni assolute e totalitarie. Inquadrando l’opera del Führer, dunque, Truffaut vuole delineare una fase successiva, in cui si passa dal plagio delle menti alla loro demolizione, dal linguaggio fuorviante della propaganda alla sua più estrema assenza.
A proposito di propaganda, non si può dimenticare il ruolo del cinema in questo senso. Non si può però neppure dimenticare il contributo che gli scritti di Truffaut hanno avuto nell’emancipazione dell’arte cinematografica da quella letteraria. Mi riverisco in particolare a Une certaine tendance du cinéma français, articolo pubblicato nel 1954 sulle pagine dei Cahiers du cinéma, in cui affermava l’indipendenza del linguaggio cinematografico da quello verbale, dunque l’autorialità predominante del regista a discapito di quella dello sceneggiatore (e soprattutto la non separazione delle due figure professionali). Sebbene il cinema si renda autonomo, però, anche i Cahiers vengono bruciati nel rogo. Forse per affermarne l’eguale valore rispetto alla letteratura, forse per rendere ancora più definitiva, assoluta e drammatica la morte del linguaggio in ogni sua forma.
Brucia con i Cahiers una visione del mondo, brucia lo sguardo critico e brucia – distruggendosi – la passione. È con queste immagini che dunque Truffaut si schiera apertamente a favore di una cultura che sia della massa, accessibile e condivisa e che ci elevi tutti a una condizione di unicità intellettuale, dandoci gli strumenti adatti per essere paradossalmente uguali. Per attaccare il pensiero non basta distruggere la letteratura, ma ogni forma d’arte. Resta solo la televisione, con il suo linguaggio ipnotico, nuovo e decisamente vuoto. Ché, come diceva Dino Risi, «la tv vive di cinema, ma il cinema muore di tv».
[…] a un altro sentimento, più forte e duraturo: la gratitudine. Se, come scriveva il regista francese François Truffaut nel 1982, «Di tutti i festival, quello di Giffoni è il più necessario», mi sento ancora più […]