Alda Merini scriveva: “Non ho più notizie di me da tanto tempo”. Penso la stessa cosa tutte le mattine osservandomi nel finestrino del Roma Termini-Zagarolo: quello che vedo è il riflesso leggermente sfocato di una che i #30anni li ha quasi raggiunti. Medito su tutte le perdite accumulate nell’arrivare a questo obiettivo: arrivare, sì, perché la corsa non è ancora finita. Anche quel treno l’ho preso con i soliti ritardi, neanche fossi figlia delle FdS.
Mi presento: sono Ylenia, ho ventinove anni e mezzo e faccio la pendolare. Rientro in quella percentuale di gente che tutte le mattine si alza almeno un’ora e mezza prima, cerca di uscire di casa sempre perfetta portando tutto nella borsa e corre in stazione a prendere il treno, spesso e (mal)volentieri dopo aver passato, a pieni voti, posti di blocco dove invece della polizia ci sono altri passeggeri, altri uomini, altre bestie affamate già alle prime luci del mattino.
Al Gate D di Termini si salutano i controllori, quasi sempre gli stessi, e ci si ritrova nuovamente a subire gli sguardi di chi aspetta il treno come te. Minuti interminabili, in cui cominci a riflettere su come ti senti e come ti saresti sentita dieci anni prima. Perché a #30anni quegli sguardi non fanno piacere, come non fa piacere sapere di avere privilegi vari solo perché al capo stazione di una fermata qualunque piacciono le belle donne, qualunque bella donna. Una volta non avrei avuto problemi a parlare con chiunque mi avesse rivolto la parola; oggi, a quasi #30anni, spero di avere le cuffie in borsa, il libro, il libro di scorta e i miei ferri per non essere disturbata.
«C’hai #30anni, mica settanta, eh». Sono le parole che mi sento dire più spesso insieme al «Madonna, ma mangi?». Eppure questo periodo di transizione mi inquieta. Sono letteralmente spaventata e forse è la prima volta che lo ammetto, ma è anche questa la fase della mia vita nella quale investo più energie del solito, in modo più mirato e soprattutto consapevole.
Se avessi prefissato obiettivi stagionali e comuni a questo punto della mia vita avrei un quasi marito, sarei quasi incinta, avrei una quasi casa. Per il lavoro non saprei: continuare gli studi mi avrebbe certamente portata a proiettarmi in un mondo che non mi avrebbe mai soddisfatta davvero e, forse, sarei arrivata comunque a lavorare in tipografia, con una laurea invece di un diploma. Magari a quest’ora avrei un mutuo sulle spalle in compagnia del fidanzato storico, con cui avrei condiviso quella specie di vita perfetta da portatori sani di #30anni.
Sono queste le cose che, arrivata alla soglia dei #30anni, pesano. Non perché senti il bisogno di tornare indietro e raggiungere quegli obiettivi; semplicemente perché senza quelli sei solo. Felicemente solo, per quel che mi riguarda.
Discutere con vecchie amiche su cosa prepareremo ai nostri compagni è dura; scegliere quale verdura cucinare è dura. Preferisco parlare di quanto ci siamo “impoverite” spendendo quaranta euro in libreria; ma no, perché a #30anni se una ragazza, una donna, non spende almeno mezz’ora a parlare di queste cose, non è nessuno.
Nessuno può vegliare sulla propria solitudine se non sa rendersi odioso.
– Emil Cioran, Sillogismi dell’amarezza, 1952
Un continuo aspettarsi solidità, schiettezza e rigore. E questa solitudine aumenta a ogni conoscenza che si allontana, inevitabilmente.
Obiettivi diversi, senza dubbio, strade che si separano quasi obbligatoriamente. Io che non voglio figli e punto alla sterilizzazione, loro che mi guardano con la faccia da meme, io che cerco di camuffare dicendo: «Poi vedremo» e lo stesso vale per tutto il resto; la giornata finisce sempre con qualcuno scontento, deluso, stanco. Caso vuole che quel qualcuno sia proprio quel genere di persona che ti incontra la mattina mentre corri e ti dice che nella vita c’è altro, che non si deve sempre e solo pensare ad apparire; poi, la sera, quando torni stanca alle nove, ti viene a ricordare di quanto bisogna in realtà essere social, essere cool, stare sempre sul pezzo perché è così che va la vita, a passo di social.
Piano piano inizi a fare una lista di cose perse: le serate in discoteca, i pigiama party con le amiche, uscite di tutte le sere con gruppi di amici diversi. Tutte cose di cui fai volentieri a meno, almeno io. Restano le cose più dolorose: l’ultimo saluto a tuo nonno, a tuo zio, quel continuo “se fossi andata in ufficio come mi aveva chiesto magari non sarebbe successo”; tutte le volte che hai mandato giù facendo uscire la dermatite, quei “no” mai detti perché vale la legge del “sembra brutto”.
Oggi, a quasi #30anni, mi sento tremendamente sola, tremendamente contenta e ancora una volta tremendamente in ritardo con gli obiettivi altrui.
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