«Quando un’alba o un tramonto non ci danno più emozioni, significa che l’anima è malata»: Roberto Gervaso racchiude in queste parole quel che accade quando la mente non ce la fa più. Fotografare emozioni è quello che fanno Vincenzo De Liquori e Ugo Marchetti, due fotografi italiani grazie ai quali riesco ancora a emozionarmi. Ogni giorno, come fosse un test, osservo i loro scatti. Viaggio fra la pace interiore e l’energia che muove il mondo; il vento che con forza corrode, giorno dopo giorno, un monte; un sole che si specchia nel mare, la città di Taranto che fa da padrona.
Fotografare emozioni: chi sono Vincenzo e Ugo
Sarà difficile raccontare chi sono Vincenzo e Ugo perché, oggettivamente, non è facile: Vincenzo è di Taranto, anima libera, mani e testa occupati nel lavoro manuale, che con una delicatezza disarmante si trasforma in un poeta con la macchina fotografica; Ugo, romano, è invece un uomo tutto d’un pezzo, rigido e forte come quei suoi bianchi e neri, come le montagne immortalate. Vincenzo De Liquori è i Cento sonetti d’amore di Neruda in riva al mare d’inverno; Ugo Marchetti quella birra a Trastevere che si beve in una serata d’estate fra i vicoli afosi della Capitale.
Mai ho posato per loro, mai come facevo per altri: non ho mai sentito l’esigenza di chiedere “Mi vedi? Come mi vedi?”, cosa che spesso ho fatto per calmare i miei vuoti – che tanto, a riempire, non si riempie mai nulla. Per questo li tengo vicino al cuore, come fossero ancore di salvezza nei momenti di smarrimento.
«I sentimenti più dolorosi e le emozioni più pungenti, sono quelli assurdi: l’ansia di cose impossibili, proprio perché sono impossibili, la nostalgia di ciò che non c’è mai stato, il desiderio di ciò che potrebbe essere stato, la pena di non essere un altro, l’insoddisfazione per l’esistenza del mondo». Pessoa trova l’insieme di cose che smettono di essere tali quando si osservano le fotografie di questi due uomini: tutto assume ordine, si torna a respirare. Improvvisamente vorresti essere lì per vivere quel momento, non solo guardarlo da uno schermo. Fotografare emozioni è la possibilità in più che ci viene data per viaggiare e ascoltare una pancia in subbuglio e affamata.
Fotografare emozioni: l’empatia e la capacità di lasciarsi andare
Troppo coinvolta sul piano emotivo, ho chiesto a un gruppo di ragazze (il mio oramai conosciuto gruppo di lettura) quali emozioni, quali parole suscitassero determinate foto. Luana, Vanessa, Federica e Lucrezia si sono espresse così. I titoli sono alla rinfusa, nessuno deve sapere quale delle tre ha sentito cosa.
La macchina fotografica non fa solo click
Henri Cartier-Bresson ci spalanca una porta sull’infinita potenza di quella che viene da molti considerata un’arte minore.
Fotografare emozioni è lasciare che ogni immagine catturata assuma significati diversi agli occhi del fruitore; è lasciare che chiunque, compreso il fotografo, proietti su di essa la propria interiorità e i propri vissuti. Fotografare emozioni equivale a creare un ponte solido fra inconscio e conscio, un ponte diretto fra quell’Es tenuto in catene e quel Super-Io che fatica giorno dopo giorno.
E se l’arte è terapeutica e la fotografia è arte, la fotografia è terapeutica: fondamentale per vedersi, per esprimere quello che reputiamo difficile. Margaret Naumburg, psicoanalista, discendente della scuola di pensiero di Freud e fondatrice dell’Art Therapy in America spiega che «il processo dell’arte terapia si basa sul riconoscere che i sentimenti e i pensieri più profondi dell’uomo, derivati dall’inconscio, raggiungono l’espressione di immagini, piuttosto che di parole».
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