Viggo Mortensen e Mahershala Ali nel film Green Book
Spesso e volentieri i film candidati al premio Oscar sono ritenuti film “impegnati”, che presentano trame articolate o scene particolarmente cruente per cercare di sensibilizzare il pubblico riguardo un determinato tema. Pregiudizio o verità? A voi la scelta. Ma dopo aver visto Green Book – e sapendo com’è andata durante la serata della premiazione – propenderete di più per la prima opzione.
Green Book è un film di Peter Farrelly uscito nelle nostre sale a fine gennaio e racconta dell’amicizia nata quasi per caso tra un pianista afroamericano e il suo autista di origine italiana, interpretati rispettivamente da Mahershala Ali e Viggo Mortensen. Una storia semplice, la loro, quasi prevedibile, ma solo per noi spettatori. I due protagonisti ci dimostrano che questa semplicità è solo apparente: un italiano e un afroamericano non potevano sicuramente avere vita facile nell’America degli anni Sessanta, la “terra delle persone libere”, come recita l’inno statunitense. A quel tempo, infatti, la libertà negli USA era privilegio di pochi, non un diritto inviolabile dell’uomo. Bastava un niente per essere marchiati come “diversi” ed essere quindi costantemente in una situazione di pericolo, come avveniva specialmente negli stati del Sud; ma è proprio lì che si deve recare Don Shirley, pianista plurilaureato che, per i motivi appena detti, si affida ai servizi di Tony Vallelonga, cui viene affidato un libriccino: è l’elenco di tutti i motel dove i neri possono fermarsi a dormire, il famoso green book del titolo.
La bellezza del film sta tutta nel rapporto tra i due personaggi, che possiedono personalità quasi agli antipodi: Tony è un sempliciotto con uno scarso senso dell’igiene, uno stomaco senza fondo e un modo di ragionare molto pragmatico, mentre Don è la quintessenza della raffinatezza. Dagli iniziali scontri sui rispettivi modi di fare si passa a conflitti più profondi, quelli che riguardano il rapporto che ciascuno di loro ha con il mondo esterno e con una società che tenta costantemente di schiacciarli.
Mortensen e Ali si dimostrano in questo film attori di una bravura incredibile (Ali è riuscito persino a conquistarsi il suo secondo Oscar al Miglior attore non protagonista); ci portano dentro la storia senza il bisogno di ricorrere a scene violente o torture fisiche o psicologiche. L’umanità dei protagonisti basta a raccontarci una storia di emarginati che fanno della loro diversità il vero punto di forza e il ponte sul quale costruire un’amicizia destinata a durare. La sceneggiatura, in questo caso, è la vera forza motrice del film e non a caso gli è valso un premio Oscar. Tutte le storie hanno un potenziale ma bisogna saperle raccontare e la cura dei personaggi, in questo caso, era di primaria importanza.
Qualcuno potrà pensare “Un altro film sul razzismo?”, ma credetemi, non ce ne saranno mai abbastanza per ricordare ciò che è stato, soprattutto se pensiamo al momento storico che stiamo vivendo, così pieno di odio e indifferenza. L’arte cinematografica, come tutte le arti, ci racconta e ci ricorda le assurdità che l’umanità ha compiuto verso se stessa nel passato. In poche parole i film ci possono rinfrescare la memoria e Green Book l’ha fatto talmente bene che ha vinto l’Oscar al Miglior film.
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