Stanotte scopriremo chi ha vinto Sanremo 2020. Noi invece premiamo l’artista che si impegna di più a contrastare l’hate speech con la sua musica. Chi sarà?
Non è questione di buoni o cattivi; è questione di cultura. Il lavoro che stiamo per presentarvi parte da questo presupposto, seppure possa sembrare il contrario: non dall’intento di giudicare i singoli, quindi, ma di capire – mediamente – qual è lo stato della cultura italiana. Anzi, lo stato dell’odio nella cultura italiana. E quale migliore metro di giudizio della musica, che accompagna persone di tutti i generi, le età, i ceti e le provenienze ogni giorno, durante le più svariate attività, dal bar all’abitacolo dell’auto, che sia scelta attentamente con il dito sullo smartphone o accettata come un destino fatale (e che viaggia su onde radio)? E quale migliore riferimento e pretesto della più popolare manifestazione artistica italiana, il Festival di Sanremo?
Ecco allora che nasce questa task force, all’interno della redazione di Parte del discorso, per monitorare il lavoro delle e dei 24 concorrenti in gara alla 70esima edizione del festival per eccellenza, in grado di bloccare per cinque giorni qualunque altra iniziativa mediatico-spettacolare. Le trasmissioni si interrompono, i palinsesti rispolverano quei vecchi film che non passano sulle reti nazionali da ormai qualche decennio, i telegiornali sembrano fare capolino nei nostri salotti quasi con la paura di disturbare, nel ricordarci che nel mondo, tra un ospite e una cover, succede anche altro.
L’Italia – che lo voglia o meno – si ferma a guardare. Forse proprio per dare il tempo a tutti di assorbire il messaggio del Festival e di allinearsi, anno dopo anno, al livello culturale medio del Paese. Per dare, in altre parole, il tempo a tutti di capire che il riflesso restituito dallo specchio-festival è anche il proprio e che snobbarlo servirà a ben poco. Ché come cantava Gaber: «Io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono».
Ma ora basta chiacchiere. Cosa abbiamo combinato?
Cos’è l’hate speech e cosa c’entra Sanremo
Nella definizione fornita da Antonio Russo su Il Post, leggiamo che:
Nel calderone dei «discorso d’odio» entrano quindi anche quelle forme di micro-disciminazione, difficili da riconoscere perché interiorizzati, che passano ad esempio attraverso un linguaggio stereotipato e idee apparentemente più innoque di altre, ma che allo stesso modo concorrono a riconfermare la subalternità di quelle cosiddette minoranze che, di fatto, minoranze non sono. Perché, a contare tutti gli individui che non rientrano nella celebre definizione del «maschio bianco etero occidentale», si potrebbe facilmente mettere su un esercito di gente incazzata nera.
Allora sono hate speech tanto i versi misognini di Junior Cally quanto i passi indietro di Amadeus, seppure violenti e «odiosi» in maniera assai diversa. Ma qui non ci interessa impartire lezioni né ai Junior Cally né agli Amadeus e neppure boicottare il Festival, che equivalrebbe a chiudere gli occhi di fronte a quella che è una manifestazione concentrata dei nostri problemi culturali. Piuttosto, oggi vogliamo divertirci a trovare la nostra vincitrice o il nostro vincitore morale – nel vero senso del termine – di Sanremo, ma senza accanirci su chi, più o meno volontariamente, si colloca invece lontano dal suo esempio.
Perché scegliere di veicolare messaggi positivi, di incitamento all’amore, con la propria musica è un atto di responsabilità individuale, ma se c’è chi non lo fa molto spesso la responsabilità è più collettiva che personale.
Sanremo 70 e l’hate speech, i punteggi rilevati
Sanremo 2020: attenti all’hate speech! La tabella dei punteggi
Col rischio di annoiarvi ancora prima di venire davvero al dunque, abbiamo fatto tante premesse, ma sono tutte essenziali per comprendere a fondo i risultati di questa analisi. Perché – lo abbiamo detto – mettere su un podio alternativo e consegnare il nostro personalissimo premio simbolico è divertente, ma è un pretesto. Non è il punto.
Il punto, piuttosto, è rilevare dei dati utili, da cui partire per una riflessione più generale sul modo in cui artiste e artisti usano, oggi, il mezzo-musica per parlare a chi ascolta di ogni sorta di discriminazione e oppressione: basata su genere, orientamento, etnia, religione, classe socio-economica.
È uno, in particolare, il dato che subito salta all’occhio: le quattro posizioni più basse in classifica sono occupate da uomini, tre dei quali sono rapper e uno – Achille Lauro – decisamente insospettabile.
Il problema-rap – e sulla possibilità di migliorarsi, tutt*
Sanremo 2020: attenti all’hate speech! Gli ultimi quattro il classifica sono tutti uomini (e tre sono rapper)
Il rap ha un problema con l’hate speech e in particolare con le donne, ma questa questione è tanto nota quanto risolvibile. Lo spiega bene Wissal Houbabi su Jacobin Italia: l’idea che i testi rap debbano essere violenti è un cliché la cui reiterazione fa comodo solo alle case discografiche. L’articolo cita infatti questi versi di Too $hort, tratti dal brano Thangs Change (ft. Illegal & Baby D), che mettono molto bene a tema la questione:
I rapper come me mancano sempre di rispetto alle signore / Ti chiedi perché, be’ me lo chiedo anche io / Ma poi giro le spalle e vado a sballarmi / perché mi pagano un sacco bene per parlare male di una puttana.
Lo dimostra anche il caso dello stesso Lauro, il cui punteggio non deve ingannare: il ragazzo migliora, si emancipa, lavora su se stesso. E a noi piace proprio per questo.
Ci piace tanto, sì, perché lo stesso artista che con i suoi primi album ha collezionato non pochi punti negativi per questa nostra ricerca, nel più vicino 2019 ci ha regalato invece queste parole, nel libro autobiografico Sono io Amleto (Rizzoli Libri):
Sono allergico ai modi maschili, ignoranti con cui sono cresciuto.
Allora indossare capi di abbigliamento femminili, oltre che il trucco, la confusione di generi è il mio modo di dissentire e ribadire il mio anarchismo, di rifiutare le convenzioni da cui poi si genera discriminazione e violenza.
Rifiuta le regole, le istituzioni, brucia i tuoi documenti, divertiti.
Sono fatto così mi metto quel che voglio e mi piace: la pelliccia, la pochette, gli occhiali glitterati sono da femmina? Allora sono una femmina. Tutto qui?
Io voglio essere mortalmente contagiato dalla femminilità, che per me significa delicatezza, eleganza, candore. Ogni tanto qualcuno mi dice: ma che ti è successo? Io rispondo che sono diventato una signorina.
Tanto gentile e tanto onest*… pare! Chiariamo i criteri di valutazione
Sanremo 2020: attenti all’hate speech! I (presunti) innocenti
A migliorare, però, non devono essere solo rapper e trapper; quelli, cioè, da cui ci si aspetterebbe ragionevolmente un punteggio basso. Perché chi oscilla poco al di sopra o al di sotto dello 0, o chi si collocano esattamente sulla linea della neutralità, non necessariamente ha fatto bene i compiti.
Facile spiegare chi si è “guadagnato” punteggi come -1: inciampati anche loro nel tranello di qualche stereotipo o altra forma di hate speech di minore entità, sono quelli che più fungono da monito a tenere gli occhi aperti sulle parole che adottiamo e su quelle che ascoltiamo. Perché neppure le migliori intenzioni ci permettono, talvolta, di riconoscere le sottili discriminazioni che perpetuiamo acriticamente attraverso il linguaggio.
Discorso simile vale per chi ha ottenuto un punteggio pari a 0: non necessariamente è sinonimo di neutralità, quanto di equilibrio. Significa, cioè, che ci sono brani portatori di messaggi positivi a bilanciarne altri più problematici.
Nessuno è salvo, nella giungla del Simbolico!
Ma come le abbiamo valutate, di preciso, queste parole?
Focalizzando il nostro interesse su temi come il sessismo, l’omotransbifobia, il razzismo, il classismo, la valutazione si è dipanata su tre livelli, ordinati qui dal più generico allo più specifico:
- Individuazione di brani che hanno il loro focus principale su una delle tematiche socio-politiche di riferimento.
A ognuno di questi brani, è stato assegnato un punteggio preliminare di +2 e -2, a seconda del posizionamento rispetto al tema. In altri termini: un brano che rivendica i diritti LGBT+ fa guadagnare 2 punti all’artista, uno omofobo gliene fa perdere altrettanti. - Individuazione di trattazioni specifiche degli stessi temi.
Per i brani con focus su un tema socio-politico, ogni passaggio significativo – in senso positivo o negativo – fa guadagnare o perdere ulteriori 2 punti all’artista. - Individuazione di trattazioni secondarie degli stessi temi.
In un brano che non ha il suo focus principale su questioni socio-politiche, possono comunque essere inseriti dei riferimenti a questi argomenti. Questi, a seconda del posizionamento e della rilevanza/gravità, fanno perdere o guadagnare 1 o 2 punti all’artista. - Individuazione di termini sensibili.
I partecipanti alla task force hanno stilato e condiviso un elenco di termini sensibili, il cui uso può essere finalizzato o all’esplicità discriminazione (es.: dare a qualcuno della putt*na) o alla rivendicazione (es.: riferirsi a se stess* come a una putt*na, con accezione positiva ed empowering). Nel primo caso, l’artista perde 2 punti, nel secondo li guadagna.
I punteggi dei singoli brani vanno quindi a comporre il punteggio finale dell’album. È quindi dalla somma dei punteggi acquisiti da tutti gli EP ed LP che compongono l’intera discografia dell’artista a determinare il punteggio finale, guadagnato dal concorrente.
Se chiariti i criteri di valutazione diventa ancora più logico affermare che «zero» non è necessariamente uguale a «innocenza», ma è più probabile che sia il frutto di una matematica favorevole, non possiamo invece riconoscere che devono essere ben pochi, se non del tutto assenti, gli inciampi all’interno di un’intera discografia, per totalizzare un punteggio finale di ben 73 punti. Perché tanti sono quelli che porta a casa la nostra vincitrice.
Sanremo 2020: poche donne, ma la nostra vincitrice sfida le probabilità
Sanremo 2020: attenti all’hate speech! Il nostro podio
Perché sì, siamo ben lieti di riconoscere che, seppure con uno scarto di soli 3 punti dal secondo classificato Piero Pelù, in cima al nostro podio si posiziona una delle poche donne di questa edizione del Festival di Sanremo, Irene Grandi!
A valerle il maggior numero di punti è il recentissimo Lungoviaggio, registrato a fine 2018 insieme ai Pastis. Oltre a essere artisticamente molto interessante – si tratta di un visual album, in cui quindi il lavoro interessa non solo la musica ma anche il video –, il disco si fa notare dal punto di vista tematico e testuale per l’uso che fa delle parole e delle voci di personalità come Tiziano Terzani, Martin Luther King, Hagit Yakira, Samantha Cristoforetti.
Certo, non è neppure questo della nostra vincitrice un album privo di difetti – casca, in un paio di occasioni, in una visione feticistica dell’esotico, altra forma di micro-discriminazione. Quello che però potete e possiamo valutare a partire da questi punteggi è il lavoro fatto finora da artiste e artisti sull’hate speech, ma non eventuali miglioramenti, acquisizioni di maggiore consapevolezza nel tempo. Vale per Irene Grandi e Piero Pelù, vale per i rapper (Lauro, Cally, Rancore), vale per i «neutrali».
Allora, prima di lasciarvi alla musica (e che il resto scompaia!), chiudiamo con un paio di buoni propositi, uno per artiste e artisti e uno per fruitrici e fruitori, sperando che entrambi vengano accolti.
A chi crea, chiediamo di non smettere mai di interrogare le parole e cercarne sempre di migliori, di più esatte, di più inclusive e universali.
A chi ascolta, chiediamo di non accontentarsi mai.
«Risalendo vedrai quanti cadono giù / E per loro tu puoi fare di più!». E, se cambia il Paese, cambia pure Sanremo.
La task force che ha permesso questo lavoro di valutazione e ricerca è composta da:
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